Reinserimento e normalizzazione

Gli spari di una mitragliatrice squarciarono la notte silenziosa della selva tropicale. Duberney Moreno si svegliò di soprassalto, prese il coltello e uscì di casa. Miravalle era un villaggio di baracche in riva al fiume Pato, e quella dove viveva lui era una delle più vicine all’acqua. Raggiunse il fiume prima di tutti gli altri, e il suo cuore mancò un battito: di lontano si vedeva la luce di una piccola imbarcazione, carica di scatoloni, e due uomini armati in piedi. Sul contenuto degli scatoloni non ebbe alcun dubbio: era cocaina. Aguzzò la vista, pregando di non riconoscere le divise che gli uomini indossavano, pregando che fossero semplici narcotrafficanti. Ma appena prima che la barca scomparisse in un’ansa del fiume, la luce illuminò il volto di uno degli uomini, e Duberney trasalì: quello era Gildardo el Cucho, ex-comandante del 7° fronte delle Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia. Quello era il suo ex-comandante.

Il mattino seguente trovarono il corpo di un soldato dell’esercito un poco più a valle, con quattro palle conficcate nel petto.

«Questo calibro lo conosciamo benissimo. Dissidenti delle FARC» disse il capitano Gómez, venuto da Florencia per investigare. Era andato a bussare alla porta di tutti gli ex-guerriglieri che si erano stabiliti a Miravalle. «Dicci dove si trova il loro accampamento» intimò a Duberney. A stento questi riuscì a dissimulare il disprezzo per il capitano. Sapeva quale sarebbe stato il destino dei suoi ex-compagni, se li avessero trovati. «Non ne ho la minima idea» mentì.

Da sei mesi ormai erano stati firmati gli accordi di pace fra il governo e i guerriglieri delle FARC, e Duberney aveva appena cominciato a intravedere la possibilità di una vita normale. Abbandonate le armi e raggiunto il villaggio, all’inizio la novità di non vivere più in un accampamento nella selva lo aveva disorientato. Era guerrigliero da quando aveva sette anni; ogni giorno si svegliava prima dell’alba e remava per ore, trasportando esplosivi e armi: il fiume e la foresta erano tutto ciò che conosceva. Non sarebbe durato nemmeno un mese a Miravalle, se non fosse giunto nel paese il Signor Guillermo Botero, dell’Agenzia per il Reinserimento e la Normalizzazione.

«Voi conoscete i fiumi» aveva detto agli ex-guerriglieri. «Nel giro di sei mesi, vi trasformiamo da soldati a guide turistiche».

Le FARC avevano insegnato a Duberney a disprezzare il governo imperialista in qualsiasi sua forma, quindi ci mise un po’ per convincersi che Botero non era lì per opprimerlo, ma per offrirgli un’opportunità. Insieme ad altri tre compagni, aveva accettato di partecipare all’addestramento per diventare guida eco-turistica di rafting sul Pato.

L’omicidio del soldato turbò Duberney, e le attività di rafting si interruppero per dare il tempo alla gente di dimenticare il fatto. Quando ripresero, l’eccitazione spazzò via ogni turbamento: aveva finito l’addestramento ed era pronto a guidare il primo gruppo di eco-turisti. Era una famiglia di Florencia, e Duberney si adoperò per spiegare loro come pagaiare, cosa fare quando il canotto accelerava, come orientarlo. Scesi dall’imbarcazione, fradici ma sorridenti, gli avevano detto: “Grazie. Ci hai davvero fatto divertire”.

Quelle parole riecheggiavano ancora nella sua mente quando, al fiume il mattino dopo, trovò tutti i canotti squarciati. L’ira e la delusione avevano appena cominciato a mischiarsi dentro di lui, quando vide con la coda dell’occhio un uomo che lo osservava dall’altra parte del fiume.

«Cosa stai facendo, Duberney? Il rafting, sul serio?» lo schernì Gildardo el Cucho.

«Rogelio.» Duberney lo chiamò con il suo vero nome. «Lasciami vivere.»

«Il fiume è nostro. Ci trasportiamo le armi. Non c’è spazio per i vostri stupidi canotti.»

«La guerra è finita, Rogelio.»

«Questa pace è falsa: solo i deboli come te le danno valore. Ma i deboli non vivono a lungo...».

Infuriato, Duberney fece per tirare fuori il coltello dalla tasca, ma quando rialzò lo sguardo l’altro uomo era scomparso fra gli alberi. Per dissipare la rabbia, la sera andò all’unico bar di Miravalle e ordinò una bottiglia di aguardiente. Scolandosela senza aver cenato, cominciò a parlare a voce alta.

«Maledetti dissidenti» si sfogò. «E pensare che fino a qualche mese fa condividevamo tutto, all’accampamento 52: cibo, armi, ideali…». Gli avventori del bar lo lasciarono sbottare, e quando fu chiaro che non sarebbe riuscito a tornare a casa da solo, lo caricarono di peso. L’ultima cosa che vide, prima di crollare nel sonno, fu il viso di un uomo che sorrideva ironico, un viso che conosceva ma a cui non riusciva ad associare un nome.

Il giorno dopo venne giù un gran temporale, e Duberney lo passò a letto smaltendo la sbornia. Verso sera le nuvole si diradarono, e lui tornò al bar per farsi una birra. Alla tv davano il notiziario; prima che Duberney potesse prestarvi attenzione, un rumore familiare lo attrasse fuori dal locale. All’inizio pensò che fosse lo scrosciare del fiume, ma poi riconobbe un timbro, un timbro che sperava di non sentire più: un timbro di morte. Guardò in alto, e vide due aerei che volavano bassi. Il suo viso si contrasse in una smorfia confusa. Poco dopo, si udì il fischio acuto di qualcosa che cade, e infine l’eco di una grande, spaventosa esplosione.

Trafelato, Duberney rientrò nel bar. Si girò verso la tv e rimase impietrito: il viso che aveva visto la sera prima, con lo stesso ironico sorriso, stava parlando. «Sono lieto di confermare che Gildardo el Cucho e tutti gli altri dissidenti dell’accampamento 52 sono stati trovati ed eliminati» annunciò il capitano Gómez.

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